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Chi sono... in breve

Mi chiamo Tomaselli Massimo in arte FoToMax2000 e sono appassionato di fotografia e video. Sin da quando ero piccolo mi dilettavo a fare le solite foto di famiglia con le fotocamere di famiglia e.......adesso, dopo corsi di fotografia e ritocco, concorsi e mostre la mia passione continua.

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martedì 23 dicembre 2014

Eppur non si muove

martedì, dicembre 23, 2014  GRANDI FOTOGRAFI  
12 dicembre 2014 - Una fotografia, dice Wim Wenders, è un film che si ferma alla prima inquadratura. Il sale della terra è dunque un album con centinaia di film interrotti sul nascere?

Pensate quel che credete di questo film sulla vita e l'opera di un fotografo, Sebastião Salgado: che è un lavoro encomiastico, agiografico, o commovente, sconvolgente, noioso, rivelatore, mistificatore... Forse sono vere un po' tutte le cose.

Personalmente mi ha colpito il modo in cui Wenders, che pur essendo un cineasta e anche un fotografo ha sempre tenute abbastanza separate le sue due produzioni di immagini, almeno sul piano delle opere (nella cultura dell'immagine, nell'atteggiamento verso la visione, le cose si intrecciano inevitabilmente), mi ha colpito il modo, dicevo, in cui ha interpretato uno dei crinali più scivolosi, e anche meno esplorati, della cinematografia: i film che usano le fotografie.

Non parlo tanto dei film che contengono fotografie come oggetti diegetici, cioè appartenenti alla narrazione filmica: ovvero, mostrano personaggi che guardano, o scattano, o maneggiano fotografie, film che  includono fotografie come elementi importanti della scenografia, o le utilizzano come chiavi narrative, in varia funzione (memoria, in generale, o prova di qualcosa)...

Di questa presenza della fotografia nelle trame dei film, che è molto più pervasiva di quanto non immaginiamo, una vera attrazione fatale (del resto stiamo parlando di mamma e figlia) è uno scout straordinario, attento e critico Maurizio Rebuzzini: non manca quasi numero FotoGraphia che non ci dedichi un articolo.

No, parlo dei film che sono anche fotografia. Dei film che sperimentano un'ibridazione fra immagini fisse e immagini in movimento, come linguaggio e non come soggetto. Che usano la fotografia non come elemento ambientato nel film, ma come mezzo di espressione del film.

Parlo dei film dove la sequenza delle scene in movimento si arresta per qualche istante, come un freeze frame,  e  un'immagine fissa  sostituisce la narrazione "mobile" e fluida, anche per molti istanti, a volte perfino del tutto. Un esempio celebre: Notte e nebbia di Alain Resnais, il film sui campi di sterminio che alterna filmati a fotografie storiche.

Sono film che volutaente scavalcano un confine, diciamo pure spezzano una divisione del lavoro iconico, tra fotografia e filmato, divisione tacitamente contrattata negli anni successivi ai Lumière (che quella distinzione peraltro non concepivano).

Una distinzione netta che ora, con il fenomeno della convergenza degli strumenti tecnologici e della coalescenza di media diversi sulle stesse piattaforme (gli schermi sepre più personali e tascabili della nostra quotidianità) tende di nuovo a sfumare, come dirò, ma che alcuni intellettuali come Luigi Pirandello, avevano profeticamente messo in dubbio nelle loro riflessioni.

Del resto, per Moholy-Nagy fotografia e film sono un laboratorio spermentale l’una dell’altro. E Un paese di Paul Strand fu considerato da alcuni critici “un film su carta”. Si contano a decine i grandi fotografi che hanno subito, e spesso vi si sono abbandonati a lungo o per sempre, le lusnghe della fotografia chesi muove: Henri Cartier-Bresson, Bob Capa, Luca Comerio, Robert Frank, William Klein, Larry Clark... Man Ray. Così come molti sono i registi che hanno rivolto alla fotografia uno sguardo attento, acuto, complice oppure critico, a volte perfino venato di una certa beffarda rivalsa, come Michelangelo Antonioni col suo Blow Up.

Noi italiani, poi, abbiamo il vanto di aver inventato un genere visuale unico nel mondo, nazionlpopolare e insieme  sperimentale, il fotoromanzo, che nasce come cinema da sfogliare, da portare a casa, prolungamento della sala cinematografica nell'edicola e poi nel salotto, un’anticipazione del consumo domestico del cinema, delle videocassette, dello streaming...

Chris Marker, poliedrico creatore visuale multimediale, definì per l'appunto "fotoromanzo" quel suo film che dopo decenni continua ad essere un puzzle per critici e cinefili: La jetée, che è tecnicamente una narrazione filmica (impressa su pellicola, scorre su uno schermo) ma è composta escusivamente di immagini fisse, sì, di foto, in biaco e nero, immobili (tutte tranne una, a voi il piacere di scovare quale, se non avete ancora visto il film...), in sequenza, accompagnate solo da voce fuori campo e colonna sonora.

La jetée è sata riproposta qualche settimana fa da una rassegna bolognese, Transizioni, molto intelligente e originale, come esempio di film fotografico; affiancandolo a un altro genere di di ibridazione, il film sulla fotografia (nel caso, l'anteprima del film Città dedicato da Christian Caujolle all'opera di Gabriele Basilico).

In entrambi i casi, quelle che vediamo sfilare davanti a noi nel buio della sala sono immagni a pieno schermo, bidmensonali, e in qualche modo funzionano come uno slide show. Sono ancora fotografie? Sicuramente.

Ma il modo in cui le guardiamo non è lo stesso. La fruizione della fotografia non su una parete o su una pagina ma attraverso uno schermo cinematografico (o video) è un'altra faccenda.

Il tempo di visione, per prima cosa, è fissato dal regista, il ritmo è imposto allo spettatore dall'autore, chi guarda non passa alla fotografia successiva quando ha "finito di guardare" la precedente, ma lo deve fare all'improvviso, magari troppo presto, quando non ha ancora esplorato, capito, acquisito, o viceversa troppo tardi, quando ha già cominciato a stufarsi di guardare.

La sensazione di non essere padroni del tempo di visione introduce una nota di ansietà nella nostra esplorazione dell'immagine. Un senso di libertà condizionata, che gli eventuali movimenti di camera truka esasperano ulteriormente: anche la libertà di spostarci a nostro piacimento all'interno della cornice viene compressa, condizionata, indirizzata dal regista.

La fotografia in questo genere di cinema ci viene dunque sequestrata? Forse, ma ovvamente non è un sopruso. Si tratta di accettare una diversa modaltà di comunicazione, uno scambio in cui cediamo alcune libertà per ottenere in cambio... Cosa?

Una lettura. Una mediazione. Credo di averlo capito meglio proprio nel film di Wenders. Dove il regista stesso entra in campo abbastanza spesso, in voce e in volto, dove la sua irruzione in una relazione che normalmente è binaria (io e il fotografo) è volutamente invadente. Un terzo agente entra dunque nel rapporto, che si fa triangolare: acquista una dimensione in più.

Dobbiamo scordarci che il film di Wenders ci faccia vedere davvero le fotografie di Salgado. Ci fa vedere le fotografie di Salgado viste da Wenders. Ci fa vedere come Wenders va alla ricerca del'amico Salgado con le proprie immagini che entrano nelle sue fotografie.

Il volto del fotografo che ripetutamente affiora, in bianco e  nero, dalla texture ugualmente bianconera di una delle propre fotografie, come un essere marino che emerge alla superficie increspando le onde, è la chiave che il regista stesso ci dà per capire questo meccanismo.

Wenders maieuta "fa parlare" le fotografie con la voce di Salgado, di più, fa trasparire il volto stesso di Salgado, la sua vita, nelle sue fotografie, che diventano così carne della sua carne, che non sono più specchio oggettivo del mondo, ma visioni umane incorporate in immagini.

E questo, dopo tutto, a differenza di alcune letture negative del film che mi è capitato di leggere, mi sembra un buon modo, un modo critico, di suggerire la lettura delle fotografie, di tutte le fotografie, non solo di quelle di Salgado.

Un'ultima considerazione sul rapporto fra cinema e fotografia. Quei ponti gettati arditamente da qualche pioniere, di cui ho parlato prima, ora sono gigantesche piattaforme. Molti elementi nuovi stanno del tutto eliminando una soglia che ci sembrava chiara e ovvia.

In verità quella differenza sembra ancora forte. Le fotografie sono mondi chiusi, il film è uno spazio estensibile. Quando guardiamo una fotografia, in un libro o in una mostra, quel che ci mostra riempie tutto lo spazio visuale disponibile, oltre la cornice non c’è niente, la realtà visuale di una fotografia finisce al suo bordo.

Mentre nel film la camera si muove e ci fa andare oltre il bordo del singolo fotogramma, “portando dentro” le cose che un attimo prima stavano fuori dallo schermo (e dunque esistevano). Per non dire ovviamente del fatto piuttosto evidente che tutti gli elementi profilmici, il montaggio, il parlato, la colonna sonora, la fotografia non li ha.

Ma nell'epoca della convergenza, dicevo, le differenze si stanno appianando. L'ormai piena assunzione della fotografia nella screen culture mina quella distinzione. La fotografa si trasferisce sugli schermi dei nostri display quotidiani; il film, che è già arte dello schermo, pure deve adattarsi un po'.

Sugli schermi, animate da software, le fotografie possono finalmente dare corpo alla loro invidia del movimento, magari incorporando solo piccoli dettagli che vibrano, come  nei remake che Michael Somoroff ha fatto dei ritratti di August Sander. Viceversa, su una pagina Web, un video è sempre, all'inizio, una fotografia immobile che può "continuare", per dirla con  Wenders, solo se tocchiamo il triangolino al centro.

Lo spettatore del film, intanto, dispone ormai di strumenti che gli restituiscono il potere di scegliersi tempi ritmi e anche modi di visione do un film: può agire su comandi (avanti veloce, stop, indietro, freeze frame) che gli consentono di sottrarsi al programma di visione previsto e imposto dal regista. Ogni sequenza può ripetersi, rallentare, fermarsi e diventare come una fotografia esplorabile a piacere.

Resta ancora un'ultima grande differenza,  tra cinema e fotografia, valida anche nell’era dei nuovi media. Solo le fotografie che non si muovono mai  lasciano nella nostra mente una traccia in forma di icone memorabili; solo le fotografie possono cristallizzarsi in immagini mentali. Di un film ci resta molto, ma non questo: se per caso ricordiamo certe immagini, sono quelle che la nostra mente ha estratto dal flusso come stills, ha trasformato in fotografie.

Giusto così. Per dispiegarsi nella sua potenza, il film che scorre sullo schermo deve fuggire via da noi, lasciarci solo le tracce vaghe delle sue visioni. Ed è questo il suo grande atout, la sua virtù. Alla fine della proiezione, come in quelle famose foto di Hiroshi Sugimoto,  le immagini sovrapposte e sommate una sull'altra devono produrre uno  schermo bianco di pura luce, come il pensiero.

FONTE: Michele Smargiassi - Repubblica

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